Di Rossella Quitadamo
Se Michele di Toro le sue “pagine bianche” è riuscito a scriverle “con cuore e convinzione” ieri sera insieme a Nicola Angelucci e Daniele Mencarelli, riempendo di note lo spazio di Ponte Vecchio, io sono qui davanti allo schermo bianco di un pc a dover descrivere l’indescrivibile senza riuscire ad ingabbiare tra punti e virgole emozioni e sensazioni che non hanno nessuna intenzione di finire nelle trappole della sintassi. Invece che narrarle, forse bisognerebbe dipingerle, ne uscirebbe fuori certamente un quadro straordinariamente colorato, sorprendente, istintivo e immediato come una tela di Jackson Pollock.
La sala era gremita di persone, di certo tra loro moltissimi erano i fans del pianista dall’immancabile cappellino nero e dalle mani fatate che si aspettavamo una serata intimistica e sentimentale con un Di Toro elegiaco e romantico, come il suo solito. Ma Michele non era da solo, divideva il palco con altri due grandi artisti che portano alto il nome della musica italiana nel mondo.
Su di una “scaletta” stesa pochi minuti prima di cominciare il concerto, tra una battuta e un assaggio della squisita cucina di Ponte Vecchio, è scoccata la scintilla da cui è nata una di quelle serate memorabili, nell’alchimia perfetta di tre talenti.
Due ore di jazz swingante, intrigante, piacevolissimo da ascoltare fatto di standard e evergreen la cui struttura si è arricchita di mille sorprese strada facendo. Inutile che vi elenchi i pezzi che sono stati eseguiti perché, in realtà, proprio non si può parlare di “esecuzioni”: ogni brano è stato una sorta di telaio su cui basso elettrico, pianoforte e batteria hanno intrecciato di volta in volta trama e ordito fino a creare qualcosa di completamente nuovo ed unico, sicuramente irripetibile.
Un bassista che riesce a far cantare il suo strumento con voce quasi da soprano, un batterista che doma tempi e ritmi guidandoli con la destrezza di un condottiero ora al galoppo ora al trotto ora a passo di danza, un pianista che con le sue dita non tocca solo i tasti del pianoforte ma anche le corde del nostro cuore. Quando tre personalità così hanno la capacità di ascoltarsi e ascoltare gli altri, la voglia e il piacere di suonare insieme, quel che ne esce fuori è qualcosa che ha un’anima, vive di vita propria e si nutre del loro entusiasmo e dell’ascolto rapito del pubblico. Non si sentiva nemmeno il tintinnio di una posata ieri sera, abbiamo quasi smesso di respirare pur di non perdere il più flebile e dolce dei suoni…
Michele Di Toro, nel suo ultimo lavoro discografico, “Echolocation”, si è posto una domanda ed ha cercato la sua personalissima risposta, trovando il punto dove nasce il suono… Anch’io mi faccio la stessa domanda: cosa rende un concerto un evento speciale? La musica, certo, quella che “è volano che esalta l’anima e rallegra il cuore”, quella fatta di suoni che trovano un’eco nei canali più profondi del nostro essere. E il suono dove nasce? Nelle vibrazioni degli strumenti? Nelle vibrazioni dell’anima?
A differenza di Michele, non ho una risposta a questa domanda; quel che so è che ciò che è nato ieri non è certo finito lì tra le pareti di Ponte Vecchio: ognuno di noi, fortunato protagonista di una serata speciale, se ne è portato via un pezzetto, quello a lui più congeniale, quello che ha parlato al proprio cuore come ad un vecchio amico; un sorso di infinito per placare la sete di colore del nostro essere.