di Rossella Quitadamo
Una nessuna centomila, tante sono le facce del jazz quante sono le persone che lo suonano. Ci sono gli interpreti che riescono a farti rivivere le atmosfere fumose dei jazz club americani, ci sono gli improvvisatori che sanno mettere in piedi dal nulla un concerto che ti strappa gli applausi dalle mani e poi ci sono i geni grazie ai quali il jazz si trasfigura per diventare semplicemente Musica. Quella che ti fa rabbrividire, che colpisce al cuore come una stilettata e che rifugge da ogni sorta di etichettatura di genere e di epoca perché le racchiude tutte ma, ad un tempo, è diversa da qualsiasi cosa l’abbia preceduta.
Claudio Filippini alchimista di emozioni, di sicuro appartiene all’ultima categoria. Ma come tutti i geni, ieri sera al Kabala è stato uno nessuno e centomila, lasciando spazio ai suoi compagni e inchinandosi al talento di autori jazz classici di cui ha dato interpretazioni che ne hanno colto l’essenza e lo spirito.
Filippini ci ha promesso un giardino incantato, come il titolo del suo ultimo album che sta riscuotendo un enorme successo e come la splendida poesia che ha preceduto il concerto, firmata Isabella Di Berardino, di cui erano esposti anche due squisiti esempi della sua arte pittorica.
E’ stato veramente di parola Claudio, perché i brani suonati insieme ai suoi compagni di avventura, Luca Bulgarelli e Fabrizio Sferra, sono stati fiori di rara bellezza dal profumo inebriante e dai colori ora tenui e delicati come in “Nothing to do” (Henry Mancini) in cui il contrabbasso si è espresso in tutto il suo lirismo, ora sgargianti come in “Evidence” (Thelonius Monk) suonata con una vivacità al limite del parossismo.
Brani perfetti nella loro godibilità paragonabili solo alla semplice eppure stupefacente perfezione della Natura. E’ proprio del genio, infatti, rendere facili all’ascolto e capaci di suscitare immediate sensazioni, composizioni solo apparentemente semplici, frutto in realtà di un grandissimo bagaglio culturale che spazia da Scarlatti a Ravel e Debussy passando attraverso tutta la storia del jazz per arrivare fino al rock inglese. Un’eredità culturale che Filippini ha metabolizzato e fatto sua, che non rinnega ma non imita perché lui fa musica solo quando ha qualcosa da dire e suona solo ciò che ha dentro, in piena libertà e con una padronanza di espressione che gli deriva da un lavoro costante per migliorarsi. E’ stato paragonato ad un musicista professionalmente maturo ma la sua maturità tecnica è solo lo strumento che gli permette di esprimere pienamente tutta la freschezza dei suoi 30 anni.
Altro tratto saliente che ha caratterizzato Il concerto di ieri, con un Ponte Vecchio gremitissimo come ormai accade in ogni grande evento di questa felice stagione del Kabala, è stata l’energia, il vigore con cui sono stati interpretati i brani. Merito anche di un inarrestabile Fabrizio Sferra alla batteria e di un ispiratissimo Luca Bulgarelli al contrabbasso; era un piacere guardare le loro mani volare su corde tamburi e tasti mentre, ad occhi chiusi, cantavano sommessamente la musica che andavano via via inventando.
Un perfetto interplay tra i tre musicisti che si sono resi protagonisti a turno della scena con virtuosismi di quelli che ti lasciano a bocca aperta ma inseriti sempre in un discorso estremamente coerente e di massima leggibilità. Contrabbasso e pianoforte con i loro incredibili arpeggi si alternavano e si compenetravano senza soluzione di continuità; la batteria pompava e spingeva su ritmi dapprima sincopati poi sempre più veloci che si esaltavano in un crescendo incalzante come nel “Fiore purpureo” (Claudio Filippini), o si stemperavano in momenti di dolcissimo romanticismo come nella chiusura di “Ivre a Paris” (Claudio Filippini)
A brillare come una gemma, al centro della serata e nell’aiuola più preziosa del giardino di Filippini, “Flying horses” a mio parere la composizione più rappresentativa del genio inventivo di questo giovane artista. Un brano dove gli arpeggi che si susseguono incessanti sulla tastiera si tramutano in un brivido continuo. C’è la veemenza di Beethoven, la passione di Chopin e tutta l’eredità della musica rock e funky: tanto classicismo ma anche una sorprendente modernità. Un galoppo di cavalli che diventa tumulto del cuore, un pezzo definitivo. Nella musica di Filippini ci sono passaggi che rievocano archetipi insiti nella nostra natura ed arrivano diretti fino alla parte più istintuale dell’ascoltatore, al di là della mediazione dell’intelletto
“Si può essere originali anche con le cose più semplici del mondo, purché ci sia sincerità, gusto e consapevolezza, senza starsi a inventare chissà cosa.” Sono parole dello stesso Filippini in una intervista di Roberto Paviglianiti su All about jazz
Chapeau, Claudio! La tua semplicità è geniale, la tua originalità è convincente, dal tuo “non inventarti chissà cosa” scaturiscono capolavori che rimarranno nella storia.