di Rossella Quitadamo
La prima serata della rassegna K-factor -una vetrina per i più promettenti giovani musicisti del territorio- ha visto per protagonisti gli Sheta Vayas e la loro originalissima proposta musicale.
Una voce fuori dal coro quella di quattro a dir poco straordinari musicisti che hanno trovato la loro ispirazione attingendo alla musica balcanica e dell’est Europa, al flamenco, al jazz manouche e all’habanera per esprimersi attraverso una musica decisamente personale ma sorprendentemente coinvolgente da ascoltare.
Cosa hanno in comune il jazz con la musica gitana? Sicuramente le radici storiche, il significato profondo che ha avuto la musica come mezzo per esprimere la disperazione così come la speranza, il dolore così come la gioia nell’ unico linguaggio universale e immediato praticabile da popoli nomadi o esiliati. Perché il jazz nella sua accezione originale, nelle sue radici è la musica dell’anima: la tecnica raffinatissima porta il musicista ad essere tutt’uno con il suo strumento fino a farne la sua voce, una voce capace di comunicare senza parole.
Riuscire a trovare un trait d’union tra generi e culture diversi, tecniche musicali distanti tra loro e lontane dalle mode, conformarle al proprio modo di esprimersi e di pensare la musica è il percorso comune intrapreso dai 4 musicisti, ognuno con alle spalle il proprio bagaglio culturale ed una indiscussa abilità con il proprio strumento. La strada su cui si sono incontrati, fatta di tradizione e sperimentazione, tecnica eccellente e godibilità dei risultati è decisamente un percorso avvincente da percorrere per gli ascoltatori.
Un viaggio tra atmosfere in continua mutazione è quello che infatti hanno proposto ieri sera gli Sheta Vayas al pubblico del Kabala.
Sulle dolci note del pianoforte di Cristian Caprarese ci siamo sentiti di casa a Montmartre; ci siamo illusi di passeggiare sulle rive del Danubio al suono malinconico della sua fisarmonica, per poi accorgerci di essere sulla sponda del Mississippi quando lo swing di Daniele Di Pentima e Emanuele Zazzara si è fatto più incalzante; danzando danzando, sulle funamboliche performance della chitarra di Manuel Virtù, eccoci al chiaro di luna in una festa gipsy dal ritmo indiavolato.
Chiudendo gli occhi riuscivi a vedere le variopinte gonne gitane trasformarsi nei volant delle ballerine di flamenco e poi nei ricami delle vesti cubane. Come dire il giro del mondo in 8 minuti o poco di più, la durata di ognuno dei brani eseguiti per noi. Grazie alla capacità e dalla sensibilità degli Sheta Vayas tutto ci è sembrato possibile ieri sera.
Una narrazione così intrigante da essere degna di commentare un film di Kusturica ha avuto, però, un piccolo grande difetto: ha fatto sì che i minuti scivolassero via troppo velocemente.
Quando hanno annunciato l’ultimo brano non ci volevo credere, eppure era volata via più di un’ora e mezza: solo il tempo per un ultimo viaggio sulle note del bis e poi tanti meritatissimi applausi per questo gruppo originale che propone una musica controcorrente, per quattro giovani musicisti che hanno un sogno e lo portano avanti come progetto di vita, orgogliosamente.